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martedì 23 marzo 2010

Piemonte: una regione in crisi, non c’è solo la Fiat .....

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L'AGES DI SANTENA
Il destino dell’Ages di Santena, una fabbrica chimica che oggi occupa 340 operai (in un paese di diecimila abitanti) ma che fino all’inizio degli anni novanta ne contava quasi il quadruplo, si decide in questi giorni. L’attività del commissario nominato dal tribunale per provvedere all’amministrazione controllata sta per concludersi; dopo la chiusura della fase delle manifestazioni di interesse, è arrivato infatti il momento di scegliere l’imprenditore con l’offerta più convincente di acquisto, consegnandogli nelle mani uno stabilimento (ma nel discorso potrebbe rientrare anche un secondo ad Asti) che è stato un modello nella costruzione di finiture e parti di gomma per le auto, per i quattro quinti destinati alle macchine Fiat.

“Questa è una delle poche aziende – spiega Ilario Coniglio, componente della Rsu aziendale, che guida il presidio dei lavoratori che da un paio di mesi controlla che gli impianti restino al loro posto – dotate di una mescola per produrre direttamente la gomma per le lavorazioni. Era il nostro fiore all’occhiello, ci lavoravano dentro cento addetti adesso sono appena dieci”. Il crollo è cominciato, secondo Coniglio, nel 2005, quando è comparso all’orizzonte un imprenditore frusinate, proprietario – in Piemonte ma anche centinaia di chilometri più giù, nel Cassinate – di altri stabilimenti dell’indotto dell’auto. È arrivato nel momento giusto per rilevare dalla vecchia proprietà, la multinazionale Continental, quello che restava dell’impianto di Santena dopo lo smembramento e il trasferimento dei pezzi di produzione meno remunerativi in Ungheria.“Da allora sono cominciati i guai”, ricorda Coniglio. Fornitori non pagati, condizioni di lavoro drasticamente peggiorate, fino al blocco del sistema di riscaldamento e di aspirazione dei fumi.

Alla fine dal bilancio è emerso un buco di 82 milioni di euro che nel dicembre del 2008 ha portato la fabbrica all’amministrazione controllata. Da oltre un anno si va dunque avanti a scartamento ridotto. Gli occupati, con una cassa integrazione a rotazione e con gli anticipi erogati dal Comune, sono una sessantina, impegnati nei lavori di minore redditività, come quelli del reparto manicotti e tubi. “Se l’azienda non è fallita – racconta Coniglio – si deve alla Fiat che praticamente in tutti questi mesi ci ha pagato gli stipendi per non perdere le nostre lavorazioni, e adesso non vuole rimetterci le somme anticipate”. Quello che succederà, è l’opinione concorde della Rsu, dipenderà proprio da come si muoverà la Fiat.“Chiediamo – sintetizza Coniglio – che non solo il commissario liquidatore ma anche la Fiat faccia la sua parte, garantendo con tutto il peso della sua forza di grande cliente che il nuovo proprietario sia uno con le gambe solide e la testa seria”. Qualcosa in più si capirà a fine aprile, quando le offerte degli aspiranti compratori si conosceranno nel dettaglio.“Se non ci saranno segnali positivi – annuncia Coniglio – bloccheremo tutto. Siamo tutti in un’età in cui è troppo presto per andare in pensione e troppo tardi per imparare un altro lavoro. Venderemo cara la pelle”.

LA BRAMBATI DI NOVARA
L’anno nuovo per i 112 lavoratori della Brambati, impresa edilizia dal marchio famoso e con alle spalle mezzo secolo di attività, è arrivato con la notizia che la loro azienda non esisteva più.Vendute le preziosissime Soa (e cioè le licenze che permettono la partecipazione alle grandi opere), spariti due betoniere e il rullo per passare l’asfalto, volatilizzati i padroni i cui figli, però – beffa nella beffa – sono rispuntati come semplici dipendenti nel momento in cui, al rompete le righe, è scattata la cassa integrazione. Giovanni Valentino, sindacalista della Rsu, fa da portavoce dei lavoratori.

Ci racconta una storia che in altri tempi si sarebbe definita incredibile, ma che oggi si sente ripetere un po’ dappertutto. “Ma da noi non è tutta colpa della crisi – obietta, riportando le mezze parole che i curatori chiamati per procedere al concordato preventivo si sono lasciati scappare –, c’è qualcos’altro che non ha funzionato”. In realtà è da più di un anno che si va avanti a docce gelate. Prima un periodo di cassa integrazione per un terzo degli addetti, presentato come “normale”, poi la ripresa dell’attività per alcuni mesi, poi l’informazione, arrivata dalla lettura dei piani giornalieri, di un nuovo periodo di cassa integrazione “ a rotazione”, infine l’appuntamento a dopo le ferie natalizie per ricominciare e il 4 gennaio la sorpresa che la gloriosa Brambati non esisteva più.

“È stato un comportamento da irresponsabili. Quest’azienda – dice con rabbia e amarezza Valentino – è integra. Possiede macchinari imponenti, ne abbiamo uno per asfaltare le autostrade che è in grado di produrre 130 tonnellate di asfalto. Non si chiude un’impresa così”. Una prova di responsabilità la stanno assicurando, invece, i lavoratori (amministrativi, autisti, carpentieri edili, asfaltisti) che tengono in ordine gli impianti perché l’abbandono non distrugga il patrimonio dell’azienda e stanno in guardia che non ci siano furti. Ci ha provato uno della famiglia degli ex proprietari che, con la scusa di prendere oggetti personali, ha tentato di trafugare beni dell’impresa. È venuto quasi alle mani con il servizio d’ordine messo su dal sindacato, ma non ha potuto toccare nulla. Nessuno si sente di azzardare previsioni sull’esito di questa lotta. Quello che tutti capiscono è che, in un’area nella quale nel giro di un anno hanno chiuso venti imprese di costruzione su cento, i lavoratori non hanno scelta. Oltre alla Brambati c’è solo la disoccupazione.

LE COOPERATIVE SOCIALI
A Torino la scelta è stata fatta ormai da quasi venti anni e nessuno ha mai avuto ragione di pentirsene. Nelle scuole l’attività di pulizia è stata assegnata alle cooperative sociali, quelle della tipologia che prescrive l’inserimento lavorativo di una quota consistente di persone svantaggiate.“All’inizio – racconta Gabriella Semeraro, componente della segreteria della Funzione pubblica Cgil che segue il comparto socio-assistenziale – i genitori erano preoccupati, oggi stanno sottoscrivendo in massa un documento che chiede di non rinunciare al servizio di queste persone”.

Dieci anni fa, infatti, al passo con i cambiamenti normativi della scuola pubblica, le cooperative in servizio nei plessi scolastici sono passate sotto la giurisdizione del ministero anche se i loro contratti sono stati lasciati in capo ai singoli istituti. Una situazione di permanente precarietà che è andata avanti fino ad alcuni mesi fa, quando il ministero ha stabilito di ridurre di un quarto il budget destinato a queste attività costringendo le scuole a programmare nelle prossime settimane un drastico ridimensionamento dei servizi e le cooperative una riduzione dell’occupazione.

“Solo a Torino – dice la sindacalista – gli addetti sono ottocento, il taglio del 25 per cento vuol dire che duecento di loro saranno rimandati a casa. Con effetti gravi sulla pulizia e l’igiene delle scuole, ma anche sul destino di questi lavoratori”. Si tratta, infatti, di persone che non troveranno con facilità un’altra occupazione. E che da risorsa che sono diventeranno per tutti un problema.“Stiamo cercando di far capire – dice Semeraro – che la situazione di Torino e del Piemonte è diversa dal resto del paese. In tutto gli occupati nella regione sono duemila, risultato di una lunga pratica nell’utilizzazione delle cooperative sociali che pure va tenuta presente. Ma c’è bisogno di intervenire adesso, fra qualche settimana sarà troppo tardi”.

INTESA SAN PAOLO
In Piemonte i bancari sono ventimila, ben oltre la metà lavora a Torino, nei quattro grandi istituti che hanno radici nella zona. Non hanno i problemi di chi è occupato negli altri settori, la crisi internazionale è arrivata ma non è costata lacrime e sangue. L’orizzonte, però, comincia a oscurarsi e il rumore sordo di qualche tuono mette un po’ di apprensione. Ci riflette su, preoccupata, Costanza Vecera, segretaria regionale della Fisac, che porta ad esempio l’accordo separato, di appena qualche settimana fa, tra il gruppo Intesa San Paolo e gli altri sindacati sulle “assunzioni in deroga al contratto nazionale”.

Si è stabilito, in sostanza, che in aree svantaggiate, volta per volta individuate dall’azienda, sia possibile chiamare al lavoro giovani inquadrandoli come apprendisti a un livello ancora più basso di quello già oggi praticato.“La propaganda – sottolinea la sindacalista – vuole farla passare come un’apertura sociale da apprezzare, in realtà si stanno ponendo le basi per compromettere una particolarità positiva del nostro contratto, la cosiddetta area contrattuale che stabilisce che ogni prestazione nell’ambito bancario è regolata dai criteri e dalle condizioni in essa contenuti.

Oggi si provoca, invece, una fessura che permetterà di utilizzare contratti diversi per lavori diversi, con buona pace di solidarietà e parità tra chi lavora nello stesso posto. E tutto questo alla vigilia del rinnovo del contratto nazionale”. Questa novità non cade in un contesto tranquillizzante che, fa notare Vecera, riguarda un gruppo che ha un quarto degli addetti dell’intero mondo bancario italiano. Per questo la Fisac Cgil ricorda nei suoi documenti il “quotidiano trasferimento delle attività amministrative e contabili del back office in Romania”, la contrazione degli organici del gruppo (in un triennio più di 8 mila unità in meno), il ripetuto rinvio dell’assunzione promessa da tempo di alcune centinaia di apprendisti (e adesso si vogliono contare nel numero di quelle preventivate nell’accordo in deroga), il piano di riorganizzazione intrapreso dall’azienda, cominciato con la vendita di un pezzo, la Banca depositaria, che gestisce e amministra i grandi investimenti. Insomma, tanti segnali: come se il temporale fosse imminente.

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