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sabato 17 luglio 2010

LAVORO IN CALABRIA

LAVORO IN CALABRIA..QUANDO LA REALTA' SUPERA LA FANTASIA
http://www.leftcom.org/files/images/2010-07-14-cashiers-in-chains.preview.png
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviataci da un compagno di Reggio Calabria che descrive le pazzesche condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti i precari nell’estremo sud della Penisola. Dove il capitalismo made in Italy mostra il suo volto più brutale e disumano. Dove la questione mafia è strettamente connessa alla questione disoccupazione e super-sfruttamento. Ma di questo i pennivendoli di regime — compresi quelli “di sinistra” — non amano parlare.
Lavoro sottopagato, contributi non versati, turni raddoppiati. Questo cliché sembra ormai sorpassato per il Meridione, in particolare per la Calabria. Con una crisi mondiale galoppante anche quel poco di piccola e media impresa presente al sud si deve adeguare per mantenere una parvenza di concorrenza sul mercato. E per fare ciò deve andare oltre uno schema già sperimentato e vecchio di decenni.
Che ci fosse da tempo il lavoro nero in Calabria è una cosa che molti danno ormai per scontata, ma, negli ultimi anni sta prendendo piede una forma di sfruttamento che farebbe invidia ai servi della gleba. Andiamo ad analizzare le diverse forme di lavoro presenti sul territorio. Naturalmente si parla di piccola e media imprenditoria, poiché su quella di grandi dimensioni i controlli sono maggiori, anche se non mancano i soliti escamotage contrattuali.
Numerosi sono gli esercizi commerciali che espongono il cartello “cercasi commessa”. Eppure, con la fame di lavoro che c’è in questa regione, gli annunci restano esposti a volte per anni. Se qualcuno provasse a chiedere al titolare del perché non si trova forza lavoro, otterrebbe come risposta: “i ragazzi di oggi non vogliono fare sacrifici”. Eppure basterebbe chiedere direttamente a coloro che hanno lavorato all’interno dell’esercizio qual è la reale motivazione della “fuga”.
In pratica lo schema in linea generale è questo. A seconda della dimensione imprenditoriale due unità lavorative su cinque sono “formalmente” inquadrate ed incorrono solo nello sfruttamento tipico di qualche ora non pagata. Per i restanti la procedura è come segue. Intanto va detto che è stato fissato convenzionalmente fra i titolari di varie attività una specie di “cartello”. Ossia chiunque cerchi lavoro non deve percepire oltre 400 euro al mese per sei/otto ore di lavoro, senza alcuna tutela contrattuale. Inizialmente c’è da fare un mese di prova non retribuito né certificato, anche se si è già esperti del settore. Dopodiché, in genere, per il secondo e terzo mese si percepisce “regolarmente” la somma pattuita, mentre per il quarto gli viene comunicato a voce dal titolare: “mi spiace ma questo mese dovrò tardare il pagamento”. Il quale avverrà dopo circa venti giorni dalla scadenza.
Il quinto mese gli viene ripetuta la stessa solfa, ma si continua a lavorare per necessità. Solo che stavolta il pagamento non arriva e attendi passivamente anche il sesto o addirittura il settimo mese. E alla richiesta formulata al padrone circa le spettanze pregresse, spesso ci si sente rispondere: “adesso i soldi non li ho, se vuoi aspetti altrimenti vai via” (avanti un altro). Una denuncia è fattibile, ma in una realtà come quella calabrese sovente è difficile che non ci siano ripercussioni a seguito di tale gesto. In pratica ci si trova ad aver lavorato otto ore al giorno senza malattia, contributi, ferie e permessi, per circa sette mesi percependo (in nero) 800 euro. Un sistema, quello descritto, che in dieci anni è passato dal 30% a circa il 60-70% delle piccole e medie imprese.
Se si analizzano categorie di lavoratori più qualificate il quadro che emerge non è certo ottimistico. Prendiamo per esempio la professione del giovane giornalista che si trova a militare da qualche anno in questo settore. Per i neoiscritti all’albo l’attività di collaborazione nei migliori casi prevede mediamente, per le unità in più presenti nelle diverse redazioni (sempre secondo lo schema di due unità su cinque), da 400 a 600 euro al mese per otto/dieci ore di lavoro. Per i meno fortunati cinque euro per ogni articolo (da 50 a 200 euro al mese), per i restanti gratis, spinti da necessità di stabilizzarsi, aspettative, speranze. Alcune redazioni locali addirittura invitano neoiscritti a presentare curriculum. Giustamente, più siamo meglio riusciamo.
Da sottolineare che una somma minima di contributi di settore deve essere versata comunque perché si è iscritti all’albo, e in ogni caso la maggior parte delle volte viene versata, attraverso qualche espediente, dai soli giornalisti. Una testimonianza che “la legge bavaglio” è solo una ciliegina sulla torta della dipendenza dell’informazione.
Infine un altro esempio. Per alcuni padroni più audaci c’è una formula davvero singolare. Assumono (in nero) un’unità alle solite 400 euro e dopo un paio di mesi arriva la proposta di essere registrati a 800 euro al mese, sempre per otto ore circa di lavoro. “Eccellente” verrebbe da dire. Ma come si dice “non è tutto oro quello che luccica”, il trucco c’è ma non si vede. Degli 800 euro sanciti in busta paga, chiedono indietro (in contanti) 300/400 euro! Così si mettono in regola pagando formalmente il “minimo sindacale” — che è già una miseria — ma in realtà danno al lavoratore solo la metà di quanto è stabilito nel contratto! Il pizzo sugli stipendi: ecco l’ultima perla di un capitalismo sempre più selvaggio e criminale.
Fonte : Leftcom



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