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giovedì 20 gennaio 2011

Tutti in piazza il 28 gennaio , Firmate l’appello di MicroMega per sostenere lo sciopero generale






Maurizio Landini , Tutti in piazza il 28 gennaio , Firmate l’appello di MicroMega per sostenere lo sciopero generale


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Il testo dell'intervento di Maurizio Landini, segretario generale Fiom:

"Lo straordinario risultato di Mirafiori, frutto del coraggio e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori della Fiat, parla a tutto il paese. Dice che è necessario difendere insieme il lavoro, i diritti e la democrazia, perché sono la condizione per un nuovo modello di sviluppo e per una nuova giustizia sociale nelle fabbriche e nel paese.

Per questo, il 28 di gennaio è importante che allo sciopero generale dei metalmeccanici partecipino anche tutte le persone che ritengono che in questo momento la lotta dei lavoratori di Mirafiori e Pomigliano è una lotta generale. Ed è per questo importante sostenere anche gli appelli che sono stati lanciati, a partire da quello di MicroMega, in cui le persone, qualsiasi idea abbiano e qualsiasi posizione sociale ricoprano, si esprimano a fianco della lotta delle lavoratrici e dei lavoratori Fiat.

Credo che sia un atto di civiltà perché siamo di fronte a una fase che mette a nudo queste questioni. Del resto c'è una lontananza e una latitanza del governo e della politica dal lavoro, e invece a partire dalla dignità e dal coraggio dei lavoratori di Mirafiori è possibile aprire una fase nuova.

Per questo, oltre a invitare tutti a partecipare il 28 alle manifestazioni che si faranno regione per regione in occasione dello sciopero generale dei metalmeccanici, credo che sia importante sostenere queste lotte firmando gli appelli di sostegno che sono stati promossi, a partire da quello di MicroMega".

FIRMA L'APPELLO: "LA SOCIETÀ CIVILE CON LA FIOM"


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Cominciamo, per esempio, dagli straordinari. Ci si è badato poco, perché parlare di straordinari in tempi (che dureranno) di cassa integrazione è surreale, e perché il salario ordinario è così misero che le persone se lo augurano, lo straordinario. Ma guardiamo oltre. Dice Marchionne (nella nitida intervista a Ezio Mauro di ieri): “Il no allo sciopero riguarda solo gli straordinari, è un obbligo contrattuale”. Ora, io non sono un tecnico, ma ho sobbalzato. “Solo” gli straordinari? Ma gli straordinari previsti dall’accordo sono di 120 ore obbligatorie, più 80 ulteriori. 200 ore. Ora l’orario di lavoro di un operaio “normalista” è mediamente di 173 ore, di un turnista di 160 ore. (Di 26 giorni al mese per gli impiegati, che lavorano il sabato). Dunque 200 ore valgono, per l’operaio che fa i turni, almeno un mese e una settimana in più: è come se il suo anno lavorativo fosse di tredici mesi e otto giorni. E “solo” in quel mese e otto giorni in più, dice Marchionne, non si può scioperare. E questa non è una liquidazione del diritto di sciopero? E perché mai non si potrebbe? Una giustificazione – fasulla, ma ancora ancora – sarebbe che gli straordinari, essendo facoltativi e volontari, possono essere scambiati con la rinuncia a scioperare: ma abbiamo visto che non lo sono.
Si osservi che non esiste alcuna norma analoga – di esclusione degli straordinari dallo sciopero – nel lavoro in Italia, e nemmeno alcun contratto che sancisca la rinuncia allo sciopero, anche temporanea. Esiste bensì l’autoregolamentazione – che non a caso si chiama così – nei pubblici servizi; o norme pratiche, come la moratoria degli scioperi nei tre mesi precedenti la scadenza di un contratto, quando si sia presentata la piattaforma del rinnovo.
Ho fatto questo esempio per cominciare, e per legarmi alle parole non equivoche dello stesso Marchionne. Però, secondo la lettera dell’accordo, non sono affatto “solo” gli straordinari, ma tutte le condizioni contemplate –cioè tutte in assoluto, dato che l’accordo sostituisce per intero il contenuto del contratto nazionale e dei contratti precedenti– a escludere lo sciopero, sia quello collettivo che quello individuale, pena misure disciplinari che arrivano al licenziamento, e che sono in ultima istanza di esclusiva pertinenza dell’azienda. Questa enormità può essere offuscata a bocce ferme dalla fraseologia dell’accordo, ma diventerebbe immediatamente materia giuridica al momento in cui intervenisse la prima misura disciplinare a carico di operai, gruppi o singoli, che si fermassero di fronte a una delle mille ragioni di insopportabilità o di vessazione della produzione alla linea –ritmi insostenibili, ambiente troppo caldo o troppo freddo, disfunzioni…
Lungo tutta l’intervista Marchionne tiene un tono risentito che è probabilmente sincero, e non ha bisogno di chiamare in ballo buona o mala fede: magari di una falsa coscienza. Gli sembra, in sostanza, di essere misconosciuto, che questi operai non gli siano abbastanza grati. Forse gli ha fatto impressione quell’idea azzardata di Chiamparino, che bisognasse srotolargli ai piedi il tappeto rosso. (Il tappeto rosso richiama il tapis roulant, e questo i “Tempi Moderni” e “Charlot”, e così torniamo al punto). Marchionne, che ammette – come tutti, ormai – un difetto di comunicazione delle sue ottime ragioni, ha una tendenza sorprendente a vedersi come autore di forti sacrifici. Come quando si è paragonato agli operai per la sua vita dura e senza ferie. Se avesse trattato pacatamente delle cose di cui parla nell’intervista, o nella conversazione telefonica con lo pseudo-Vendola (in cui, come succede spesso, chi fa lo scherzo ne viene fuori male, e chi lo subisce diventa simpatico) le cose sarebbero andate in porto ragionevolmente e responsabilmente. Dunque è difficile pensare che non interessasse, a lui e ai suoi, farsi la fotografia col piede sulla schiena della Fiom e degli operai. Rispetto a questa tentazione, non occorre ripetere, nonostante la scelta dell’azienda e degli altri sindacati di fare buon viso a cattivissimo gioco, che la sfida, nella sua preponderante parte simbolica, l’hanno persa, e con tutti: con quelli del No, e con quelli del Sì perché non c’è alternativa. Quelli del Sì per convinzione della bontà del piano industriale, bisogna cercarli col lanternino. E la proporzione di chi ha votato No rispetto ai tesserati della Fiom, e ancora più eloquentemente dei votanti per la Fiom nelle elezioni per la Rsu – circa tre a uno – misura la portata della sconfitta.
Ora sottolineano che conta il risultato, e si passa ai fatti. Ci si passerà molto lentamente: ma intanto è chiaro che mentre l’accordo chiude in una gabbia rigidissima l’insieme dei doveri operai, e le relative sanzioni – cioè fino al licenziamento – ignora bellamente qualunque impegno dell’azienda, e a maggior ragione delle sanzioni eventuali. E’ unilaterale, semplicemente. Do niente, ut des tutto. L’hanno riconosciuto osservatori dei più competenti e dei più neutrali. Ora, non si tratta né di distrazione padronale, per così dire (i padroni sono distratti davvero, col personale), né di mera arroganza. Ho sentito Mucchetti – da cui imparo parecchio – all’“Infedele” l’altra sera invitare alla ottimistica eventualità che gli operai dei paesi emergenti facciano presto e bene la loro strada verso la democrazia, che integri il miglioramento economico e sociale: magari, infatti. Però per il momento va molto più in fretta la retrocessione della democrazia dove è più antica che non la sua avanzata dove non c’è, e in Cina il tempo dei diritti è assai più lento di quello dell’espansione economica (più 10,1 l’anno scorso, un punto in più del 2009). Per completare il lato pessimistico del ragionamento (dopodiché, su fratelli e su compagni!), temo che sia molto più forte e rapida l’attrazione “occidentale” per il modello autoritario cinese, che non quella cinese per il modello democratico occidentale. In nome dello stato di necessità globale: sfrenata concorrenza produttiva, e insieme urgente emergenza ecologica, si affrontano “meglio”, ahimè, con una dose crescente di dispotismo. I capi della Cina comunista-ipercapitalista decretano che il modello democratico non vale alla loro longitudine: i nostri manager (e politici) sono inclini a pensare che il modello autoritario sia il più adatto alla scala planetaria. Sembrerà loro sempre di più che la democrazia, nel mondo globale, è un lusso, dunque qualcosa di innaturale che non possiamo più permetterci; così come l’ecologia, l’abbandono progressivo del petrolio e delle automobili private, e la diplomazia. Alla guerra come alla guerra. E vogliamo andare alla guerra con un braccio legato dietro la schiena? (E la tendinite, e il tunnel carpale, e il mal di schiena, e vent’anni di catena di montaggio, e il primo giorno di malattia pagato?).



di Adriano Sofri

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