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martedì 1 febbraio 2011

L’alienazione nel lavoro in epoca postfordista


Herbert Marcuse (1898 – 1979)

Per capire come il nostro filosofo arrivi a sentire la necessità di una rivoluzione che vada contro il sistema capitalistico/consumista è necessario comprendere il concetto di lavoro del filosofo.

Nel saggio “Sui Fondamenti filosofici del Concetto di Lavoro nella Scienza economica” (1933) Marcuse analizza il concetto di lavoro rifacendosi alla trattazione di Hegel.

Nell’analisi classica dell’economia il lavoro è visto solo come un’attività svolta per soddisfare determinati bisogni materiali. Marcuse contesta questa definizione perché per lui il lavoro non è un’attività determinata bensì è “la prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo”. Il lavoro è il fare per mezzo del quale “l’uomo diventa diventa per sé ciò che egli è”, ovvero attraverso il lavoro l’uomo acquista la forma del suo esser-ci e fa del mondo il suo mondo. Dunque il lavoro ha una finalità esistenziale, è in questione “il poter-accadere dell’esistenza umana nella pienezza delle sue possibilità” infatti “tutti i singoli fabbisogni hanno il loro fondamento ultimo in questo bisogno originario e permanente che l’esistenza ha di se stessa”.


Il fare lavorativo è composto da tre elementi: la durata, la permanenza e il suo carattere essenziale di peso:

* Per durata s’intende che il compito posto all’esistenza umana non può mai essere assolto in un singolo processo lavorativo o in vari processi singoli, ma solo in un perdurare essere-al-lavoro ed essere-nel-lavoro.
* Il carattere di permanenza significa che dal lavoro “deve venir fuori qualcosa che, per il suo senso o la sua funzione, sia più duraturo del singolo atto lavorativo e faccia parte di un accadere universale”.
* Per peso del lavoro s’intende tutti gli aggravi dovuti ad una specifica organizzazione sociale.

Caratteristica base del lavoro è la sua priorità sul gioco. Mentre nel gioco l’uomo fa degli oggetti quello che più gli pare sperimentando su di essi la propria libertà, nel lavoro, invece, l’uomo è sottomesso alle regole degli oggetti su cui si esercita: “Nel lavoro l’uomo viene continuamente allontanato dal suo essere-se-stesso e indirizzato a qualcosa d’altro e per altri.”


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A forza di pretendere che i lavoratori siano autonomi e responsabili senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli.


Il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di realizzazione personale. Per questo motivo la disoccupazione e la precarietà possono rappresentare un vero e proprio disagio esistenziale. Ma cosa accade quando il lavoro diventa il solo mezzo capace di dare un senso alla vita? Cosa avviene se, pur non potendo contribuire alla definizione dei suoi obiettivi, il lavoratore diventa il responsabile del loro mancato raggiungimento? In che modo le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro in epoca postfordista determinano le nuove forme di alienazione contemporanea legate all’attività lavorativa?

Dopo Freud, lo sappiamo bene: lavorare e amare sono i fondamenti della civiltà. È per questo che la mancanza di lavoro, che si tratti della disoccupazione o della precarietà, rappresenta un vero e proprio disagio esistenziale e può essere vissuta da coloro che la subiscono come un fallimento personale. Il lavoro è essenziale per ogni essere umano. È non solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di realizzazione personale. Permette di trasformare il mondo e di trasformare se stessi, modificando il rapporto che si stabilisce con gli altri, il nostro stesso modo di vedere le cose. Una cosa, però, è sostenere che, grazie al lavoro e al riconoscimento sociale che ne deriva, possiamo contribuire alla tutela e a volte anche allo sviluppo della nostra identità; altro è trasformare il lavoro in un oggetto dotato di proprietà magiche, l’unico in grado di dare un senso alla vita. L’individuo diventa allora schiavo della sua attività. Come scriveva Hannah Arendt nel 1961: «Mentre l’opera termina quando l’oggetto è compiuto, e pronto per aggiungersi al mondo comune degli oggetti, il lavoro gira indefinitamente nel vortice sempre uguale dei processi biologici degli organismi viventi, dove fatica e dolore hanno fine solo con la morte degli organismi medesimi».[1] Certo, i tempi delle catene di montaggio e della schiavitù istituzionalizzata raccontati in modo magistrale da Chaplin in “Tempi moderni” sono ormai lontani. All’epoca del postfordismo e del management partecipativo, però, esistono nuove forme di alienazione legate all’attività lavorativa che meritano di essere analizzate.

Il fordismo è entrato definitivamente in crisi nel corso degli anni Settanta. Sono stati gli stessi datori di lavoro, di fronte ad una domanda che cambiava e si diversificava continuamente, a decidere che era nel loro interesse che le catene di produzione divenissero più “flessibili”. Ha fatto così la sua comparsa in Europa il toyotismo, una nuova forma di organizzazione del lavoro che si ispira alle metodologie sperimentate in Giappone negli anni Cinquanta. Con il metodo kanban, la produzione viene ormai gestita dall’inizio alla fine: si mettono in produzione solo gli oggetti già ordinati dai clienti. Questo permette di produrre a “pieno regime” e “just in time”. La competitività dell’azienda è l’esito congiunto della riduzione dei costi superflui e dell’adattamento all’evoluzione della domanda: zero tempi d’attesa, per risposte sempre rapide; zero difetti, per una qualità sempre migliore; zero stoccaggi, per adattarsi prontamente alle variazioni quantitative della domanda. Siamo in presenza di una gestione della produzione radicalmente diversa dal fordismo. Secondo i principi stabiliti da Ford, bisogna in primo luogo produrre, successivamente provvedere agli stock, e infine vendere. Il toyotismo inverte la relazione: bisogna innanzitutto vendere, e solo successivamente, sulla base delle vendite, produrre. È la domanda a stabilire direttamente la quantità e le caratteristiche della produzione. Queste trasformazioni hanno avuto un impatto diretto sull’organizzazione del lavoro. I lavoratori hanno dovuto mostrarsi flessibili e competenti, cooperativi e coinvolti, partecipare alle decisioni e prendere delle iniziative, dar prova di un’autonomia sempre maggiore. Donde la comparsa di un nuovo vocabolario: si parla di stato dell’arte, competenze, know how, qualifiche sociali. Si ritiene che il modo migliore di lavorare sia in équipe, secondo “modelli di competenza” in grado di “far appello alla soggettività” dei dipendenti.

Nel 1982 è stato pubblicato il bestseller “Alla ricerca dell’eccellenza”, un libro sulla gestione economica accolto subito da un successo strepitoso, nel quale si sosteneva che le aziende che aspirano all’eccellenza devono stimolare la fiducia del personale e favorire la responsabilità individuale.[2] Nel periodo in cui scrivevano il libro, Thomas Peters e Robert Waterman erano consulenti alla McKinsey Consulting, uno degli studi di management più in vista, di quelli che svolgono consulenze per grandi imprese ma anche per gli Stati, gli stessi colossi anglosassoni che hanno gestito la transizione all’economia capitalista delle economie socialiste. Di fronte al successo del modello nipponico, i nostri due coraggiosi manager si sono impegnati nell’individuare le ricette capaci di condurre e mantenere ogni genere di impresa a livelli d’eccellenza e hanno elaborato a questo scopo il modello delle «sette S». Struttura: preservare una struttura semplice; strategia: essere sempre attenti al cliente; systems: basare la produttività sulle motivazioni del personale; skills: attenersi alle proprie competenze; staff: favorire autonomia e innovazione; stile: saper coniugare rigore e flessibilità; shared values: fare sempre appello a particolari valori chiave. Progressivamente, l’azienda cambiava look e ostentava la volontà di farsi carico della piena realizzazione dei suoi dipendenti: ognuno doveva sentirsi libero di agire come voleva, di portare alla propria azienda idee nuove e di trovare al suo interno il proprio benessere. Consegnati alla loro creatività e alla loro inventiva, i lavoratori – si sosteneva – devono saper creare le condizioni del loro successo. Prendendo atto delle loro competenze devono essere polivalenti e flessibili. Mostrando di avere fiducia in se stessi, devono essere in grado di superare ogni difficoltà. I nuovi modelli manageriali, contrariamente al taylorismo, hanno la pretesa di restituire al mondo del lavoro l’uomo nella sua interezza.[3] «Trattate le persone come esseri adulti. – scrivevano Peters e Waterman – Trattatele come soci. Trattatele con dignità, con rispetto. Considerate loro – e non gli investimenti o le tecniche – come la fonte prima degli utili della produttività». Come non valutare allora con favore l’evoluzione della condizione dei lavoratori dipendenti che, trattati dal taylorismo alla stregua di macchine, si trasformavano ora in “risorse umane”, riabilitate nel discorso dominante e infine integrate negli innumerevoli programmi di sviluppo della persona?

La realtà, però, è sempre più complicata di come viene descritta nei discorsi. Di fronte alla concorrenza e alla pressione sempre più grandi legate alla globalizzazione, le pratiche manageriali adottate per il buon funzionamento delle aziende si irrigidiscono. Le decisioni di riassetto, declassamento, accantonamento o licenziamento si moltiplicano, mentre coloro che conservano il proprio posto di lavoro vengono sottoposti a oneri sempre più impegnativi. Le scadenze si ravvicinano. Le valutazioni si moltiplicano. Le analisi dei risultati si intensificano. Per fare carriera si deve mostrare di essere capaci di trovare il proprio posto in contesti estremamente differenziati; bisogna dar prova di duttilità e flessibilità. Ogni lavoratore, per restare “impiegabile”, deve costantemente essere all’altezza di ciò che gli viene chiesto, proprio mentre si moltiplicano le tensioni nei rapporti personali lavorativi. I dipendenti sono sottoposti a una pressione omologante che li porta a subire le regole dell’impresa per non essere catalogati fra i devianti, gli elementi di cui occorre sbarazzarsi.[4] Ognuno è libero di organizzare il proprio lavoro come meglio crede, ma deve al tempo stesso raggiungere i risultati previsti da altri. Sono infatti le aziende a fissare per ogni lavoratore obiettivi e calendari che non possono essere messi in discussione. Ma come si può, allora, parlare ancora di autonomia quando coloro che vengono definiti autonomi non possono prendere alcuna decisione al di fuori del quadro prestabilito dai dirigenti? In realtà, l’autonomia nell’impresa è molto relativa e non permette ai lavoratori di autodeterminarsi. In compenso, la sua utilità è grande: serve a giustificare il fatto che, se gli obiettivi non vengono raggiunti, siano i dipendenti a doversi assumere la piena responsabilità del fallimento. In quanto agenti autonomi, infatti, essi sono responsabili delle loro azioni e delle conseguenze delle loro azioni: nessun errore potrà essere perdonato. Ma si può, nello stesso tempo, non essere liberi di fissare i propri obiettivi ed essere completamente responsabili di un eventuale fallimento? In realtà, lungi dall’essere autonomi, i lavoratori sono sempre più sotto controllo. Malgrado la presunta libertà, sono costretti a lavorare in stato d’urgenza e sotto la pressione degli obiettivi fissati dall’azienda. Il tutto è agevolato dalle nuove tecnologie informatiche (internet, cellulari ecc.) che consentono all’azienda di essere in contatto permanente con i suoi dipendenti: il confine tra la sfera privata e la sfera pubblica si fa sempre più sfumato, e i lavoratori si trovano a essere costantemente valutati e giudicati in base alla loro capacità di essere sempre disponibili, competenti e impiegabili. Se un tempo autonomia e responsabilità venivano invocate per limitare la dipendenza dei lavoratori dai loro superiori, oggi, imposte dall’alto, si ritorcono contro gli stessi lavoratori.

La competizione e la globalizzazione contemporanee non transigono: chi non si adatta non sopravvive. Come illustra l’americano Stephen Covey, autorevole consulente aziendale, «la nuova era esige la grandeur, pretende che ognuno abbia la certezza di realizzarsi lavorando con passione e che sia pronto a pagare in prima persona».[5] Per dirla in altro modo, ognuno deve ormai credere alla propria mission. Tutto dipende da sé. Basta volerlo. Anche se, in questa corsa forsennata verso il successo, si deve essere pronti al sacrificio estremo: pagare in prima persona. Non è d’altronde proprio quello che sta accadendo oggi? Se tutto dipende dalla propria volontà, quando qualcosa va storto o si commette un errore si pensa di trovarsi di fronte alla prova irrefutabile che non si è stati capaci di essere all’altezza delle aspettative. In un universo in cui ognuno può (e deve) diventare “imprenditore della propria vita”, la mutazione forzata viene vissuta come una sanzione alla propria mancanza di impegno. A forza di pretendere che i lavoratori siano autonomi e responsabili senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli. È il loro “saper essere” che è direttamente in causa e non più solo il caro e vecchio “saper fare”. Errori, sviste, stanchezza: tutto diventa inaccettabile; tutto rinvia all’incapacità del singolo di adattarsi alle esigenze del mercato. È allora che il senso di colpa aumenta e, talvolta, diventa insopportabile. Per non parlare poi di quanto succede da quando si è scatenata la crisi economica. Ormai, licenziamenti e mutazioni forzate sono il pane quotidiano di molte aziende. Per alcune di loro, si tratta di una necessità. Ma, per i lavoratori, questa stessa necessità si trasforma in un incubo. Come sopportare una mutazione forzata o un licenziamento quando ci si è dati corpo e anima alla propria azienda? Come accettare il fatto di non essere più utili all’azienda, quando si è sempre stati pronti a lavorare con passione, fino al limite estremo della propria resistenza fisica e psichica? Le inchieste sui suicidi che hanno colpito nel 2009 e nel 2010 France Télécom mostrano che la maggior parte di coloro che si sono dati la morte erano dei lavoratori particolarmente investiti e meticolosi.[6] Non si trattava quindi di individui depressi, fragili e incapaci di adattarsi alle trasformazioni delle aziende, ma al contrario di lavoratori che non avevano esitato ad assumere un certo numero di responsabilità, a lavorare più del dovuto, senza riposarsi e senza prendere tutte le ferie a loro disposizione. Erano delle persone che avevano talmente aderito alla cultura manageriale delle proprie aziende da non rendersi nemmeno più conto che la loro vita dipendeva dal lavoro e dalle soddisfazioni che potevano trarne. Ma, a partire dal momento in cui tutto dipende dal lavoro, le difficoltà lavorative che si possono incontrare (e che tutti, prima o poi, incontriamo) diventano degli ostacoli insormontabili. Dopo essersi dati a fondo nel proprio lavoro, come uscire indenni da un declassamento o un licenziamento?

Con Taylor l’uomo era scomparso dall’universo manageriale. Oggi, l’uomo è presente, ma la sua presenza, nonostante l’utilizzo, nei discorsi, di concetti positivi e forieri di consenso, come autonomia, partecipazione, convivialità, motivazione, è unicamente al servizio della produttività. Il modello di persona promosso dalle logiche manageriali è quello di un soggetto da cui si esige iniziativa, autonomia, responsabilità, coinvolgimento, ma l’esaltazione dell’autonomia e della responsabilità individuale mira a nascondere il fatto che i lavoratori sono sempre più spinti verso il mimetismo e il conformismo.[7] Alla valorizzazione della decisione e dell’autonomia corrispondono nuove forme di alienazione nel lavoro. La logica di cui sono prigionieri i lavoratori è sempre più perversa: la responsabilità viene abilmente trasferita dall’alto verso il basso; i dipendenti devono anche dar prova di iniziativa e inventiva, ma non possono autonomamente fissarsi alcun obiettivo; se gli obiettivi assegnati non sono raggiunti, la colpa non è mai attribuita al fatto che gli obiettivi erano oggettivamente irraggiungibili, ma alla mancanza di motivazione e di valore del dipendente. Quando arriverà il momento di riconoscere che mettere l’uomo al centro delle preoccupazioni dell’azienda non significa ridurlo a una semplice risorsa umana?

di Michela Marzano
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