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lunedì 12 dicembre 2016

Robot Rubano Posti di Lavoro



I più colpiti sono i lavori d'ufficio, i compiti di ragionieri, commercialisti e simili, la cui esistenza rischia di essere resa inutile dal progresso di computer e intelligenza artificiale

 Nei prossimi anni i robot potrebbero far scomparire 15 milioni di posti di lavoro in Gran Bretagna, quasi la metà del totale. Il monito viene da Mark Carney, governatore della Banca d'Inghilterra, in un discorso che ha fatto ieri sera a un convegno organizzato dalla Liverpool University. Molti lavori oggi fatti da esseri umani potrebbero venire automatizzati grazie alla rivoluzione tecnologica e digitale: i più direttamente minacciati, afferma Carney, sono i posti nel settore amministrativo, i lavori d'ufficio, i compiti di ragionieri, commercialisti e simili, la cui esistenza rischia di essere resa inutile dal progresso
 di computer e intelligenza artificiale.



"La nuova età delle macchine potrebbe avere effetti devastanti per la forza lavoro", ha detto il governatore della banca centrale inglese. "Ogni rivoluzione tecnologica distrugge spietatamente posti di lavoro, e di conseguenza vite e identità, prima che emergano nuove occupazioni. "E' accaduto con la fine dell'economia agricola e l'emergere della rivoluzione industriale, si è ripetuto quando l'economia dei servizi ha eclissato quella manifatturiera, e ora è probabile che il fenomeno si ripeta colpendo classe lavoratrice e classe media".



In un precedente studio sull'argomento, Andy Haldane, capo economista della Banca d'Inghilterra, aveva a sua volta avvertito che l'automazione minaccia gran parte dell'odierna forza lavoro, citando tuttavia parrucchieri, baby-sitter e badanti come i mestieri a basso reddito considerati più sicuri di continuare a esistere anche dopo la nuova rivoluzione tecnologica del nostro tempo.



Nel suo discorso all'università di Liverpool, Carney ha criticato inoltre il "decennio perduto" 2007-2017, in cui per la prima volta dal 1860 il valore dei salari nel Regno Unito in termini reali è sceso anziché aumentare, un fenomeno che "nessuno che vive oggi aveva mai conosciuto prima d'ora" e che ha generato scontento, pessimismo, proteste contro la globalizzazione. Tra i più colpiti, secondo il governatore, i "millennials", i giovani nati a cavallo del nuovo millennio: i ventenni di oggi, ha indicato, guadagnano 8 mila sterline l'anno meno di quelli della generazione precedente. E con l'avvento della "età delle macchine" sarà una parte sempre più ampia della popolazione a fare un passo indietro. 
Prendere contro misure, è sottinteso nel suo intervento, sarà assolutamente necessario, per evitare scossoni politici come quelli di questo 2016.

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http://cipiri00.blogspot.it/2016/09/i-robot-sostituiranno-luomo-nel-lavoro.html

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850 morti bianche da gennaio a ottobre 2016


Infortuni sul lavoro
Un guerra silenziosa: 850 morti in 10 mesi e senza l'uso di armi se non il capitale.

EMILIA ROMAGNA, VENETO E LOMBARDIA SONO LE REGIONI CHE CONDUCONO LA TRAGICA CLASSIFICA DEGLI INCIDENTI MORTALI SUL LAVORO REGISTRANDO RISPETTIVAMENTE 77, 72 E 66 VITTIME.

Continua il dramma delle morti bianche in Italia come si evince dall’ultima analisi condotta dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro di Vega Engineering sulla base di dati INAIL: sono infatti 632 gli infortuni mortali avvenuti in occasione di lavoro e 218 quelli accaduti in itinere da Gennaio ad Ottobre 2016.

Unico dato confortante è il decremento della mortalità pari al 13,3% (97 casi) rispetto all’anno precedente, il 2015, che contava, nello stesso periodo, 
729 casi di incidenti mortali in occasione di lavoro.

Da un punto di vista regionale, l’Emilia Romagna continua ad essere in prima posizione nella triste graduatoria delle morti bianche con 77 decessi, seguita dal Veneto con 72 vittime e dalla Lombardia con 66 incidenti mortali.
La Valle d’Aosta continua a rappresentare l’eccezione con alcun caso registrato.

Il Sud Italia risulta essere la macro area più colpita dal dramma delle morti bianche con 138 vittime e un indice di incidenza sugli occupati pari al 40,2%, 
seguito dal Nord Est con 104 casi (34%).

Vercelli guida invece la classifica provinciale per casi totali di infortuni mortali sul lavoro con un totale di 31 vittime registrate, seguita da Trento e Monza Brianza (19 casi).

Il settore economico delle costruzioni conta il maggior numero di morti (96 pari al 15,2% del totale dei casi di morte in occasione di lavoro), seguito dalle attività manifatturiere con 84 decessi (pari al 13,3% del totale) e dal settore del trasporto 
e magazzinaggio (77 casi pari al 12,2%).

Nel periodo considerato si calcolano inoltre 97 stranieri deceduti (il 15,3% del totale) e 42 donne. Il 32,9% di tutte le morti rilevate in occasione di lavoro è rappresentato dalla fascia d’età compresa tra i 45 e i 54 anni, tuttavia l’incidenza più elevata della mortalità rispetto alla popolazione lavorativa, coinvolge gli ultra sessantacinquenni.


Ci auguriamo che il comunicato e le tabelle statistiche possano diventare un utile strumento di lavoro per Voi e possano contribuire a diffondere la cultura della sicurezza sul lavoro.

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giovedì 1 dicembre 2016

Nuovi Poveri Italiani




Non più solo disoccupati, anziani o famiglie numerose: oggi vivono al di sotto della soglia di povertà anche i lavoratori, le famiglie non necessariamente numerose, i giovani. È quanto emerge dal rapporto per il 2016 su povertà ed esclusione sociale in Italia intitolato Vasi comunicanti, pubblicato il 17 ottobre dalla Caritas italiana.

Un quadro cambiato negli ultimi anni, spiega il rapporto che, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat e riferiti al 2015, vede un milione e 582mila famiglie in povertà assoluta, cioè più di 4,5 milioni di individui. “Si tratta del numero più alto dal 2005”, spiega il rapporto Caritas. “E si tratta, parlando di povertà assoluta, della forma più grave di indigenza, quella di chi non riesce ad accedere a quel paniere di beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Dal 2007, anno che anticipa l’inizio della crisi economica, la percentuale di persone povere è più che raddoppiata, passando dal 3,1 per cento al 7,6 per cento. La crescita è stata continua, con l’unica eccezione registrata nel 2014, illusoria rispetto a un’inversione di tendenza”.

Anche se mutato, il contesto nazionale vede ancora una volta il Mezzogiorno vivere la situazione più difficile con l’incidenza più alta sia sugli individui (10 per cento) sia sulle famiglie (9,1 per cento). E, proprio al sud, dove vive il 34,4 per cento dei residenti in Italia, si concentra il 45,3 per cento dei poveri di tutta la nazione. Ad aggravare il quadro ci sono i dati forniti dalla Svimez (l’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno), che parlano di 576mila posti di lavoro persi dal 2008 nel meridione: il 70 per cento delle perdite di tutta Italia, mentre i livelli occupazionali risultano i più bassi registrati dal 1977.

Ma non è solo il sud Italia a peggiorare. “Nel corso del tempo anche aree del centro e del nord hanno vissuto un vistoso peggioramento dei propri livelli di benessere, in modo particolare se paragonati agli anni antecedenti la crisi economica. In soli otto anni anche in queste zone è raddoppiata la percentuale di poveri”.

Cade dopo diversi anni, così, quello che era definito il “modello italiano” di una povertà con connotati circoscritti. “Oggi accanto ad alcune situazioni che rimangono stabili, irrisolte e in molti casi aggravate, si evidenziano alcuni elementi inediti e in controtendenza”, continua il rapporto Caritas. “Sul fronte dell’occupazione, le famiglie maggiormente sfavorite sono quelle la cui la persona di riferimento è in cerca di un’occupazione (tra loro la percentuale di poveri sale al 19,8 per cento). È netto, anche per questi casi, il peggioramento rispetto al periodo precedente alla crisi (si è passati da un’incidenza del 7 al 19,8 per cento). Accanto a tali situazioni negli ultimi anni sembrano aggravarsi le difficoltà di chi può contare su un’occupazione, i cosiddetti working poor, magari sotto occupati o a bassa remunerazione. Tra loro particolarmente preoccupante è la situazione delle famiglie di operai, per le quali la povertà sale all’11,7 per cento. Al di sotto della media, invece, è il livello di disagio delle famiglie di ritirati dal lavoro”.

Gli anziani come risorsa
Altro punto di rottura con il passato è l’età delle persone che vivono in povertà assoluta. “Oggi i dati Istat descrivono una povertà che potrebbe definirsi inversamente proporzionale all’età, con la prima che tende a diminuire all’aumentare di quest’ultima. Se si analizzano i dati disaggregati per classi di età si nota come l’incidenza più alta si registra proprio tra i minori, sotto i 18 anni, seguita dalla classe 18-34 anni; al contrario chi ha più di 65 anni, diversamente da quanto accadeva meno di un decennio fa, si attesta su livelli contenuti di disagio”.

Degli oltre 4,5 milioni di poveri totali, infatti, il 46,6 per cento risulta sotto i 34 anni; in termini assoluti si tratta di 2,1 milioni di individui, e tra loro i minori sono 1,1 milioni. “Gli anziani dunque sono coloro che mediamente sembrano aver risposto meglio a questi anni difficili”, continua il rapporto. “Il tutto probabilmente è ascrivibile sia alle tutele del sistema pensionistico sia al bene casa. Al contrario la persistente crisi del lavoro ha penalizzato giovani e giovanissimi in cerca di una prima o nuova occupazione e gli adulti rimasti senza un impiego. E la mancanza di un lavoro, è doveroso ricordarlo, può rappresentare un elemento di forte rischio sociale specie se cumulato con altre forme di disagio”.

Altra novità, infine, riguarda le tipologie familiari. La povertà assoluta, infatti, raggiunge livelli molto elevati tra le famiglie numerose con cinque o più componenti, specie se al suo interno ci sono tre o più figli minori. “Registrano un forte peggioramento i nuclei composti da quattro componenti, in particolare le coppie con due figli. Quindi, se in passato costituiva un elemento di rischio la presenza di almeno tre figli, oggi si palesano in tutta la loro gravità anche le difficoltà dei nuclei meno numerosi”.


Povertà, dati Ocse:
 “In Italia indigenti un bambino su 5 e un lavoratore su 9. Più disuguaglianze sociali dopo la crisi”

L'aggiornamento dell'Organizzazione della cooperazione e lo sviluppo sullo stato di salute dei Paesi europei. "I frutti della ripresa non sono stati condivisi", è il verdetto. Peggio di noi sta la Spagna. In Francia la tendenza è al miglioramento, mentre in Germania gli squilibri hanno registrato un graduale rialzo. Osservatorio sulla vulnerabilità: "Tre italiani su cinque hanno problemi economici"

Un bambino su 5 è indigente. E lo è anche un lavoratore su 9. Sono gli ultimi aggiornamenti dell’Ocse sulle disuguaglianze di reddito in Italia. La fotografia, in linea con i dati dell’ultimo rapporto Caritas, è quella di un Paese in cui crescono le disuguaglianze sociali e la povertà. In generale “dopo sette anni, le disuguaglianze nel reddito siano rimaste storicamente alte” per la mancata distribuzione dei “frutti della ripresa”, scrivono gli analisti dell’organizazione. Dati alla mano il coefficiente Gini (indicatore che misura le disuguaglianze) è passato dallo 0,313 del 2017, nella fase precedente alla crisi, a 0,325 nel 2014. Il picco, 0,331, è stato toccato nel 2012.

Andando al tasso di povertà relativa, in Italia è passato dall’11,9% del 2007 al 13,1% del 2012, salendo poi ulteriormente al 13,3% del 2014, segno della difficoltà delle famiglie a risollevarsi dopo la crisi. A pagarne il prezzo più alto i bambini: nel 2014 è povero quasi un minore su 5, il 17,7%. Quanto alle altre categorie è povero il 16% dei giovani tra i 18-25 anni, il 13% degli adulti; il 9,3% degli anziani e l’11,5% dei lavoratori. Da segnalare che però il tasso di povertà ancorato al 2005 si è attestato al 15,6% nel 2014 contro il 7,2% della Francia. l’8,6% della Germania e l’11,9% della Gran Bretagna. Rialzo drammatico della povertà in Spagna: era al 23,4% nel 2014, contro il 14,2 del 2007. Il tasso di povertà dell’intera area Ocse “ancorato” al 2005 risulta invece al 10%.

Quanto alle disuguaglianze, la situazione non è omogenea. In Francia l’indice è tornato ai livelli pre-crisi (da 0,295 a 0,297) dopo il picco di 0,308 del 2012. In Germania le disuguaglianze hanno segnato un graduale rialzo 0,285 nel 2007, 0,289 nel 2012 e 0,292 nel 2014. Peggio dell’Italia sta però la Spagna passata da 0,324 a 0,335 fino a 0,346 negli anni 2007, 2012 e 2014. Non brilla la media Ocse: 0,317 pre-crisi, 0,316 nel 2012, 0,318 nel 2014. Segno che nell’area “i frutti della ripresa non sono stati condivisi”, si legge nel rapporto.


Sempre giovedì l’Università degli Studi di Milano e l’istituto di ricerca Eumetra hanno diffuso i risultati dell’Osservatorio sulla vulnerabilità economica delle famiglie italiane, secondo cui sebbene, quest’anno “l’indice di vulnerabilità economica delle famiglie sia diminuito del 13% rispetto al 2013”, ancora “tre italiani su cinque hanno problemi economici”. Faticano ad arrivare a fine mese “il 61,3% delle famiglie: il 40,1% con alcune difficoltà, il 13,3% con molte e il 7,9% proprio non ce la fa”.

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